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Publicamos el texto de la entrevista concedida por Su Exc. Mons. Mario Toso, Secretario del Pontificio Consejo «Juaticia y Paz», y que ha sido publicada en la revista trimestral Microfinanza, número 2 - año 1 - 2013, pp. 59-63.

A continuación el texto de la entrevista  [ITA]

Le encicliche sociali degli ultimi Papi ci ricordano, tra l’altro, che il mondo rurale non è soltanto un territorio da sfruttare a fini di profitto economico, ma un vero e proprio ambiente di vita dove i valori dell’economia si integrano e si fondono con quelli umani, sociali ed ambientali. Purtroppo, ormai da molti anni stiamo assistendo ad progressivo abbandono delle terre coltivabili, con una conseguente perdita di quei valori e di quelle tradizioni che erano caratteristiche delle comunità rurali, senza che vengano trovati modelli alternativi di sviluppo e di occupazione, soprattutto per i giovani. Ritiene che sia possibile invertire tale tendenza e quali iniziative dovrebbero assumere i Governi per raggiungere questo obiettivo?

L’abbandono delle terre a cui ci si riferisce è stato più volte oggetto dell’attenzione della Chiesa e in particolare da parte di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che, ad esempio, denunciarono questo fenomeno come dannoso e stigmatizzarono la «negligenza della società verso il settore agricolo». Per rimediarvi, occorre innanzitutto smettere di considerare l’agricoltu-ra, le zone rurali e le attività ad esse connesse, come componenti trascurabili dell’economia nazionale, specialmente se paragonate all’industria o alla finanza. Solamente allora si potrà intraprendere la via delle riforme necessarie. Servono, infatti, apposite politiche per sostenere l’agricoltura per troppo tempo trascurata.

Al riguardo, si possono segnalare alcune piste di riflessione:

1) valorizzazione dell’immagine del coltivatore diretto, dell’allevatore e di tutta la comunità agro-rurale

nei Paesi in cui quasi nessun giovane prende in considerazione una carriera agricola, anche a livello imprenditoriale, e in cui, addirittura, i lavoratori della terra augurano ai loro eredi di trovare un impiego altrove;

2) appositi studi che approfondiscano la conoscenza delle potenzialità di ogni zona rurale e delle specie botaniche che meglio vi si adattano, in modo da assecondare la pianificazione della produzione. Questa non può essere lasciata interamente nelle mani di chi intende solamente sviluppare piantagioni altamente redditizie senza curarsi né della sostenibilità né del costo sociale o ambientale della sua attività;

3) sostegno al piccolo coltivatore, soprattutto nei casi in cui intenda contribuire in modo durevole alla tutela della biodiversità attraverso le sue molteplici produzioni. Questo aiuterebbe a superare le difficoltà di accesso ad un credito equo, dovuta anche alla frequente impossibilità di essere adeguatamente rappresentati o di negoziare. È essenziale che l’agricoltura non si riduca alla pianificazione delle multinazionali agroalimentari, che dispongono di ingenti capacità di finanziamento, di meccanizzazione, di lobby e di knowhow tecnologico;

4) identificazione e abbandono di politiche confusionarie che creano pericolosi squilibri e anche situazioni indegne dell’essere umano: in passato si sono pagati i proprietari terrieri affinché lasciassero incolte le loro terre, con il risultato di presidi rurali abbandonati ed il conseguente non raro aumento di frane, la crescita dei prezzi, e anche la distruzione di raccolti da non immettere nel mercato;

5) sviluppo delle necessarie infrastrutture: strade, sistemi di comunicazione, energia, scuole, ospedali, silos e centri di stoccaggio, mercati, per evitare che la vita nelle zone rurali diventi troppo difficoltosa e che, con il conseguente fenomeno dell’inurbamento, continui l’abbandono delle campagne.

Gli esempi appena citati sono volutamente molto generici in quanto, ovviamente, vanno tradotti in apposite politiche e azioni studiate per ogni singolo contesto. In sintesi: ritengo sia certamente possibile ribaltare la tendenza in atto dell’abbandono delle terre. Non so quanto ciò sia facile e di rapida esecuzione, ma di sicuro l’inversione di marcia è indispensabile e va fatta nel miglior modo possibile. Dai Governi ci si aspetta un’iniziativa politica in questo senso.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, l’80% della popolazione mondiale ottiene solo il 5% del credito erogato dal sistema bancario. L’esclusione dal sistema creditizio è molto presente anche nei Paesi “ricchi”: in Italia, si stima che circa il 16% del totale delle famiglie italiane (cioè oltre 3 milioni di famiglie) non accedono ai servizi bancari. Il problema è ovviamente molto più presente e importante nei Paesi in via di sviluppo. Quali soluzioni propone il Pontificio Consiglio Iustitia et Pax per favorire l’inclusione finanziaria e sociale di soggetti “svantaggiati” quali gli immigrati, i disoccupati, i giovani, le donne, gli espulsi dal sistema produttivo?

Una precisazione è necessaria: il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace non ha la missione di proporre “soluzioni” tecniche specifiche. Piuttosto, il compito di questo Dicastero è quello di fornire quadri di riferimento strutturati su una valida base etica offerta dal Vangelo, dalla Dottrina sociale della Chiesa e dall’antropologia cristiana. Questi quadri di riferimento, poi, vanno studiati, adottati e incarnati dagli attori che operano nelle diverse sfere dell’economia e nei diversi contesti. Se, ad esempio, una riflessione del Pontificio Consiglio sottolinea l’importanza di politiche che favoriscano l’inclusione finanziaria dei piccoli lavoratori della terra, nell’ottica del principio del bene comune, si capisce come la legislazione necessaria, pur rifacendosi allo stesso principio, sarà diversa in uno Stato del G8 o in uno dell’Africa Subsahariana. Comunque sia, esistono numerosi enti ecclesiali o di ispirazione cristiana, che propongono soluzioni contestualizzate e attente ai bisogni concreti: si tratta di quegli enti maggiormente “operativi”, più vicini alla popolazione e ai territori: penso ad alcune Commissioni “Giustizia e Pace”, alle Diocesi, alle Caritas e alle svariate ONG cattoliche o ai progetti di tanti ordini religiosi che agiscono a livello nazionale o locale.

Ciò precisato, tornando alla domanda che concerne l’inclusione finanziaria, ritengo che essa sollevi tre questioni fondamentali così formulabili:

1) per quali motivi determinate persone sono escluse dall’accesso al credito in località dove pur sono presenti agenzie bancarie?

2) come pensare a breve l’estensione del credito in quelle zone molto povere in cui, sicuramente, nei prossimi decenni non è prevedibile una fitta rete di istituti di credito, come la può immaginare un residente nella penisola italiana?

3) quali sono i criteri per un “buon” credito?

Riguardo al primo punto, questo Dicastero, la diplomazia della Santa Sede e il Magistero degli ultimi Pontefici insistono sull’importanza di garantire ad ogni persona le condizioni necessarie per uno sviluppo umano integrale e una vita dignitosa. Laddove ciò richieda un accesso al credito, è importante trovare i mezzi pratici e gli strumenti legali per garantirlo a tutti, anche agli emarginati, ai cosiddetti “non bancabili”. Passando al secondo punto, va tenuto presente che, nelle numerose zone prive di istituti di credito, migliaia di persone, specialmente dell’ambito rurale, non potranno recarsi prima di molti anni ad uno sportello bancario per espletare le pratiche necessarie all’ottenimento di un credito, per fare o ricevere bonifici o per sottoscrivere assicurazioni. Inoltre, anche ammettendo che le banche aprano oggi in quelle zone delle filiali o delle agenzie, certamente moltissimi potenziali utenti rimarrebbero “non bancabili”. Inoltre, occorre chiedersi quali soluzioni replicabili ed efficaci può offrire la tecnologia, ad esempio attraverso i cellulari, mediante apposite applicazioni destinate alle operazioni bancarie: credito, pagamenti, contabilità, ossia mediante una circolazione chiara, semplice, sicura e poco costosa di informazioni utili. E anche quali soluzioni possono essere offerte da strutture organizzate, coordinate e estremamente ramificate nel territorio, come le Caritas, per affiancare le soluzioni tecnologiche, e fare in modo che la comunità e le cooperative svolgano, in un clima di fiducia e di solidarietà, il loro fondamentale ruolo anche nel campo del credito, senza lasciare tutto in balia di un mondo digitale, impersonale, non del tutto affidabile, che può prestarsi alla speculazione. Il terzo punto, infine, ci riporta ad alcune riflessioni fondamentali riguardo al rispetto dell’altro, all’equità, all’eticità degli interessi, alla trasparenza e alla sostenibilità di ogni operazione finanziaria, alla responsabilità e al bisogno di educazione e di formazione adeguata sia degli operatori dell’ente erogatore del credito sia di chi lo riceve. Benedetto XVI, nell’Enciclica Caritas in veritate (paragrafi 45 e 46), ha evidenziato quanto simili riflessioni siano attuali. La discussione su come fare un “buon credito” è ampia, a tutt’oggi non conclusa, ma non è questo il luogo per tentare di farlo.

L’interesse che il microcredito e la microfinanza stanno suscitando da anni nei Paesi in via di sviluppo – ed ora anche nelle economie cosiddette avanzate – sembra dimostrare che le amministrazioni pubbliche da un lato ed un vasto numero di organizzazioni private e del non-profit dall’altro considerano questi come strumenti privilegiati per la lotta alla povertà e, nello stesso tempo, un’opportunità di affermazione e di crescita di identità, di dignità umana, di solidarietà, di condivisione delle risorse e di impegno comune per l’affermazione del diritto universale al lavoro. Ci può dire qual è per la Chiesa il ruolo che il microcredito e la microfinanza dovrebbero svolgere per offrire più efficaci soluzioni alla “imperfezione” dei mercati, in particolare nel settore dell’agricoltura, valorizzando la centralità della persona e del capitale sociale?

La Chiesa a tutt’oggi non ha elaborato una dottrina specifica sul microcredito e sulla microfinanza. Direi che si possa parlare piuttosto di una riflessione generale sulla finanza, sull’economia, sul profitto, sul credito e sul debito, nella convinzione che l’economia deve ritrovare la sua vocazione iniziale di essere al serviziodell’uomo. Per quanto concerne il prefisso “micro”, poi, occorre applicare il principio di sussidiarietà che sollecita ad ottimizzare i processi, in modo che tutto si svolga al livello più “popolare” possibile, con efficacia e competenza. È «importante, in effetti, che il sistema di credito sia ben adattato alle realtà del settore [di riferimento] »1.

Resta il fatto che, pur in assenza di una dottrina specifica in proposito, i Pontefici e alcune entità della Santa Sede sono tornati ad interessarsi del microcredito negli ultimi anni, specialmente in occasione della crisi economica. Difatti, in concomitanza con la crisi è aumentata l’attività di – ma anche l’interesse per – istituzioni finanziarie più vicine alla popolazione, più credibili e controllabili. Proprio per questo, il microcredito ha assunto un ruolo sempre più importante non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli considerati avanzati. Tale evoluzione va interpretata come una conferma di quanto sia fondamentale la fiducia, la cui assenza è stata determinante nello scatenamento dell’ultima crisi finanziaria.

Aggiungerei che, almeno nell’ottica di questo Dicastero, il microcredito concernente le zone povere del mondo agro-rurale ha un impatto rilevante, perché è destinato a svolgere un duplice ruolo.

Il primo consiste nel “rendere possibile”: sono necessari numerosi investimenti, spesso di non grande volume, per migliorare le attività agricole di migliaia di produttori. Piccoli investimenti per l’irrigazione, lo stoccaggio, l’essiccazione e anche il trasporto possono generare grandi risultati in termini di aumento della produzione e dunque del guadagno, di sviluppo, di lotta alla fame. Piccoli investimenti in scuole e nel campo della formazione possono produrre, poi, grandi risultati nella gestione delle fattorie e delle risorse naturali. Il secondo ruolo consiste nel “rendere responsabile”: chi gestisce un credito, per quanto piccolo possa essere, aumenta le proprie capacità manageriali. Cresce in autonomia, perché apprende a gestire il denaro, dovendo calcolare rimborso delle spese, rimborso del debito, necessità di reinvestimento; comprende il valore del risparmio e di un prestito. Pertanto, è lecito dire che il microcredito, offrendo la possibilità alle persone di realizzare o rafforzare microimprese, permette di compiere un salto culturale nella lotta alla povertà. Il suo impatto supera il livello puramente economico, perché ha un notevole valore sociale e culturale.

Ovviamente, tutto ciò è possibile solo se il credito è “buono”, come indicato al punto 3) della precedente risposta.

1. Cf. GIOVANNI PAOLOII, Discorso agli agricoltori di Puglia, Bitonto, 26 febbraio 1984, par. 3.

2. BENEDETTO XVI, Messaggio al Direttore Generale della FAO in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione 2006, 16 ottobre 2006.

3. GIOVANNI PAOLOII, Discorso ai membri del membri del Comitato centrale della “Confederazione internazionale del Credito agricolo”, 08 maggio 1982, par. 2.